Fuoco

Milano, è il primo gennaio 2021. Un petardo in lontananza rompe brevemente il silenzio e distoglie l’attenzione dalle immagini che rapide scorrono la tua mente: il fuoco di un palazzo in fiamme, tu che insieme ai tuoi colleghi irrompi per salvare le persone all’interno.

Un altro petardo, ancora, un rumore più vicino.Ti sembra passata una vita da quando lavoravi come vigile del fuoco, sono solo dieci mesi da quel 21 febbraio di un anno fa. La tua squadra in pochi giorni si è trovata a lavorare senza guanti e mascherine, vi hanno detto che servivano più ad altri, e nel camion non c’era modo di tenere il metro di distanza. Poi le persone da salvare: un continuo contatto di mani, di corpi.

Così molti di voi hanno iniziato ad ammalarsi, alcuni a morire, e sono nate le proteste: ancora immagini di fiamme nella tua mente. Eri bambino, quando tua madre ti diceva di non giocare col fuoco, tu ridevi scappando un po’ più in là cercando di essere rincorso. Adesso, quel fuoco che sempre ha accompagnato la tua vita si è spento: la tua squadra è stata riconvertita in vigili della temperatura.

Ti sei abituato, ormai. I sorrisi delle persone che eri abituato a salvare sono nascosti dietro mascherine adesso offerte come spazi di pubblicità. Le persone, davanti a te, distanziate in file lunghe per entrare in stazione e all’aeroporto, nei centri commerciali: a ciascuna avvicini uno scanner della temperatura, quelle calde ti seguono al reparto tamponi, a quelle fredde rilasci un certificato digitale che gli concede 24 ore di movimento fino al prossimo scan.

Poi torni a casa, dove vivi da solo, ti colleghi a Chatdinner per cenare con gli amici. E siete lì, adesso, che accumulate forchette virtuali per ogni amico che incontrate. La cena viene interrotta per una ricetta suggerita da un brand, ti alzi e vai verso la cucina. Riempi la moca di polvere di caffè, la chiudi, e finalmente accendi il fuoco.
Loving Duna

“Non fare il furbo, quel chiwawa lo avevo prenotato mesi fa” penso sia almeno la terza volta che ripete questa frase, ma credetemi io non riesco a decifrare cosa stia dicendo, non riesco a pensare che a quel vocale di whatsapp registrato da Duna.
“Ivan senti Noi di tenderly sappiamo quanto è delicata la tua igiene intima io credo di non amarti più, sei patetico, irresponsabile, infantile per questo da oggi nasce il nuovo rotolone 7 strati è finita morbidezza infinita in più di 200 strappi”
Non avrei dovuto prendere la versione di whatsapp con i vocali sponsorizzati, sapevo che avrebbe compromesso il mio equilibrio psichico, la mia situazione sentimentale o comunque il rapporto con la mia routine intestinale.
“Il chiwawa, dammelo subito” il grassone continua a fissarmi minacciandomi con il suo guinzaglio monouso, mentre si dondola impaziente nel suo selfsaver, una nuova invenzione del governo, una sorta di hula hop che distanzia ad un metro il prossimo, così eviti scambi involontari di liquidi e in regalo hai una pietosa immagine di te stesso.

Tenderly, tenderly, il guinzaglio… ma cosa diavolo ci faccio ancora qui… devo andar da Duna. Con uno scatto che, considerando la mia attitudine atletica, mi sloga una mezza dozzina di tendini, cerco di portare me stesso lontano dall’hula hop del tipo in sovrappeso (che sarebbe già al sicuro, distanziato dal prossimo con la sua circonferenza personale).
“Hey lei, cosa crede di fare??? Non può andarsene in giro senza cane!”
“Me ne dia uno, uno qualunque”
“Abbiamo i deluxe, i premium o i basic”
“Uno qualunque, basta che mi possa portare a due isolati da qui”
“Considerata la sua urgenza, le propongo il nostro excellence, sponsorizzato Swarowski: un mastino puro sangue con collare coordinato offerto dal brand”, la donna ostenta un sorriso ipnotico (Tenderly, morbidezza, Duna, sei patetico), in quel momento riuscirebbe anche a vendermi un altro Credo in 12 volumi.

Angel è il mio nuovo passpartout per poter arrivare a Duna: 25 chili di nervi e muscoli, un’aggressività esplosiva boicottata penosamente da un collarino scintillante. Si trascina versando rivoli di bava lungo la strada come gomitoli, tanto che avremmo fatto in tempo a raggiungere Duna, uccidere il Minotauro ed uscire dal labirinto.
Gli altri portacani dal marciapiede di fronte guardano con invidia quel quadrupede che ha dissolto almeno due settimane del mio stipendio con la velocità di un singhiozzo dello Spread.

Ma non c’è tempo, devo raggiungere Duna, voglio capire dove ho sbagliato… perché io, io
cambierò, sarò un uomo diverso sarò… Una zavorra àncora i miei afflati poetici: Angel è lì fermo, scodinzolante, accanto al risultato osceno e maleodorante del suo ultimo pasto da excellence.

Il guinzaglio monouso, dopo la sosta di 30 secondi esatti, spalanca in automatico uno sportellino con “pinza da prelievo”. No, non puoi farmi questo, non ora che sono ad un passo da casa sua, cazzo. Lo sportellino fa partire il conto alla rovescia, se non mi do una mossa a pulire, il mio conto sarà prosciugato dalla ditta “Dog to go”.

E dunque, eccomi chino su quello squallido raccolto, sotto lo sguardo interrogativo della testa inclinata di Angel… cosa potrebbe capitarmi ancora oggi? 
“Ivan!” Eccola, è lei, Duna. In questo momento giocherella con la collanina che le ho regalato e che, per il modo in cui la tortura, immagino rappresenti simbolicamente una qualunque delle parti del mio corpo.

“Io… Duna, posso spiegarti… ascolta…”

“Ivan, sei patetico, rassegnati… è finita”

Ma cosa accidenti bisogna dire in queste situazioni? Perché chi lascia ha il suo bel repertorio inossidabile e preconfezionato di frasi di rito, mentre chi viene lasciato sembra sempre un totale idiota? Ma non siamo noi la parte lesa? Lasciateci almeno un vademecum, che so, una raccolta di frasette per uscirne salvando un briciolo di dignità.

Me ne sto lì col mio sacchetto… certo, potrei implorala di tornare con me, gettarmi ai suoi piedi, ma ho il timore fondato che possa usarne uno per compromettere la mia futura progenie. Quindi rimango immobile, in attesa di quel fattore sorpresa che spesso nella vita arriva per rimescolare le sorti. Ma l’unica cosa che sento rimescolarsi chiaramente è la sua bile davanti alla mia faccia inebetita.

Con un movimento agile, aggira il mio safesaver e, seguita dallo sguardo di un uomo, di un cane e del suo contenuto intestinale, si allontana sulle sue lunghissime gambe.
Maledette gambe che l’hanno portata da me e che ora me la portano via.

La voce metallica che viene fuori dal guinzaglio mi ricorda che il tempo a mia disposizione sta per terminare. Una voce meccanica, fredda, che impartisce il suo ordine di prelievo escrementi in modo inumano, sbagliando tutti gli accenti, le cadenze. Sbagliando tutto.
Esattamente come in un addio.
L'amore ai tempi della pandemia

Non era questa l’apocalisse che ci aspettavamo. C’eravamo immaginati un’Apocalisse con la A maiuscola, uno spettacolo terrorizzante e adrenalinico in puro stile blockbuster. Avevamo contemplato qualunque possibile scenario – catastrofi ambientali, meteoriti di fuoco, piogge radioattive, guerre interstellari, invasioni aliene, rivolte cibernetiche guidate da sofisticatissime forme di intelligenza artificiale pronte a soppiantare definitivamente il genere umano. Quello che nessuno aveva immaginato è che saremmo finiti a cliccare compulsivamente sul tasto “aggiorna” per scoprire se si era liberato uno slot per la consegna a domicilio della spesa.

E quello era solo l’inizio. Con il passare delle settimane e il perdurare delle misure restrittive imposte dal governo per far fronte alla pandemia, l’incubo, per Alberto, era diventato un altro: l’impossibilità di vedere Nadia, di baciare Nadia, di sprofondare la faccia fra i seni così perfetti di Nadia, di sentire il profumo della pelle di Nadia e lasciarsi accarezzare dai suoi sospiri mentre lui, beh… Il solo pensare a lei gli provocava una nostalgia disperante. Ecco, era questa la misera apocalisse che gli era toccata in sorte: ritrovarsi prigioniero di un matrimonio insignificante, intrappolato fra le mura di casa propria, con una moglie che per lui provava ormai solo un garbato disprezzo e un lavoro – responsabile marketing di una nota casa editrice – che lo condannava a restare inchiodato alla sua scrivania. Nadia, ormai, era solo un ricordo: meraviglioso e irraggiungibile.

Perché Alberto, adesso, apparteneva alla classe degli “smart workers”, ovvero a quel 50% della popolazione a cui era precluso qualunque rapporto con il mondo esterno. Un esercito di impiegati e liberi professionisti costretti a una vita on-demand: dai consulti medici allo shopping, dagli aperitivi alle lezioni di ashtanga yoga, dai concerti al teatro, tutto poteva essere ordinato e usufruito on-line grazie alla miriade di servizi e start-up nate sull’onda dell’emergenza Covid-19. Era quella che gli esperti chiamavano l’era della “shut-in economy”: un sistema socio-economico completamente nuovo, strutturato in modo da rendere quasi del tutto superflui i contatti sociali e ridurre al minimo il rischio di nuovi contagi.

Chissà come facevano gli altri. Tutti quegli adulteri improvvisamente mutilati della loro vita segreta, costretti a rinunciare ai loro flirt estemporanei, alle loro sveltine, ai loro appuntamenti clandestini in stanze d’albergo più o meno stellate, alle madornali sbandate per la loro segretaria o le amiche della fidanzata.
Certo, c’era sempre il sexting: per un po’ Alberto e Nadia ci avevano anche provato, con reciproca soddisfazione, ma dopo qualche mese la cosa era diventata piuttosto ridicola, oltre che vagamente frustrante: più che provocare piacere, sembrava acuire il senso delle rispettive solitudini.

Il punto è che Nadia non era una semplice amante: no, era molto di più. Era l’unica donna al mondo che Alberto avesse mai desiderato, la sola donna con la quale avrebbe voluto trascorrere il resto della sua vita. Anche la quarantena, al fianco di Nadia, gli sarebbe parsa un idillio.

Così alla fine, dopo mesi di dubbi, struggimenti e notti insonni, Alberto prese una decisione.

Era una scelta difficile, forse la più difficile che avesse mai fatto in vita sua, ma sapeva che solo così avrebbe potuto spezzare le catene della sua prigionia e tornare fra le braccia di Nadia.

“Basta, rassegno le mie dimissioni dalla casa editrice. Da domani faccio il rider” 
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